Scopo principale delle nostre trattazioni - nelle quali è indispensabile il continuo ripetere dati richiami ai «teoremi» fondamentali, e meglio se con le stesse parole e frasi - è la critica del farneticamento sulle forme «imprevedute» e difformi del capitalismo modernissimo, che costringerebbero a rivedere le basi della «prospettiva» e quindi del metodo marxista.
 
Tale falsa posizione è facilmente messa in rapporto col disconoscimento, e meglio colla mai avvenuta conoscenza, delle linee essenziali della nostra dottrina, dei suoi principi cardinali. Tutta la discussione in corso sulle forme rivoluzionarie in Russia, ed in Cina, si riduce al giudizio sul fenomeno storico dell' «entrata» dell'industrialismo e del macchinismo in aree immense del mondo, finora rette da forme terriere e precapitaliste della produzione. Costruire industrialismo e meccanizzare è uguale a costruire socialismo, ogni volta che si fa con piani centrali e «nazionali». Ecco la tesi errata.
 
La classica identità storica marxista è tra macchinismo e capitalismo. La differenza tra impiego delle forze meccaniche in una società capitalista e in una società socialista non è quantitativa, non sta nella direzione tecnica ed economica portata da cerchie ristrette ad una cerchia totale. Essa è qualitativa e consiste nel capovolgimento completo dei caratteri capitalisti dell'impiego delle macchine da parte della società umana, cosa ben più profonda, e che consiste in un «rapporto tra uomini» opposto a quelle del maledetto «sistema di fabbrica» e della divisione sociale del lavoro.
 
Tre forme storiche: industrialismo per aziende autonome; industrialismo per aziende sempre più concentrate e infine unificate nella direzione; socialismo; tutte e tre prevedute e descritte «dal primo momento» in Marx. Nulla di sopravvenuto, che inatteso fosse, o spezzasse i limiti dell'analisi, allora delineata per sempre. E chi parla di dogmi si freghi. Non conosciamo rinnegato, nella cui bocca non abbia fornicato tale parola. Mao-Tse-tung la paragona a «sterco di vacca». Ebbene, buon appetito.
 
IERI
L'uomo e la macchina
 
John Stuart Mill, uno dei profeti del Capitale, nei suoi classici Principles of PolitIcal Economy (Londra 1821) dice che resta ancora a sapersi se le invenzioni meccaniche abbiano reso meno pesante il lavoro di un qualsiasi genere umano. Marx parte da questa citazione nello studio del macchinismo. Per la prima volta, nel campo delle scienze sociali, la discussione comincia con lo spostare radicalmente il modo di impostazione dei quesiti. Se la macchina sia un bene o un male, tutt'al più sarà un bel tema per saggio di letteratura. Marx centra ed orienta subito la questione sull'impiego capitalistico delle macchine. Questo, di diminuire il lavoro del genere umano, non ne era affatto lo scopo. Esso impiego, «come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, non mira che a diminuire il prezzo delle merci, a raccorciare la parte della giornata in cui l'operaio lavora per se stesso, ad allungare l'altra parte in cui lavora per il capitalista». Tale rigorosa definizione (inizio del cap. XIII, primo Tomo) al solito contiene in sé, e lo vedremo facilmente, il programma comunista. Faremo noi a meno di macchine, per punirle di avere commesso tali porcherie? All'opposto, le impiegheremo in quanto, ed in modo, che si possa, in un primo periodo, alzare i costi di produzione e abbassare la parte del tempo in cui l'operaio lavora per il capitalista, in periodo ulteriore «sviluppare la forza produttiva del lavoro» non per avere prodotti in quantità folli, ma per erogare meno lavoro.
 
Sempre per saggiare il metodo antimetafisico, riesce gustosa la noterella a piè di pagina, alle parole sul render meno grave il lavoro di un qualsiasi genere umano. «Mill avrebbe dovuto aggiungere: che non viva del lavoro altrui, perché è cosa certa che le macchine hanno grandemente aumentato il numero degli oziosi, cioè di quelli che si sogliono chiamare persone ammodo».
 
Dunque, se è marxista la tesi «le macchine erano indispensabili per arrivare alla rivoluzione comunista» effetto di lettura banale ed impotente è il luogo comune sulla marxista apologia del macchinismo moderno. Dice Marx che i punti di partenza della «rivoluzione industriale» nel modo di produzione sono la forza lavoro nella manifattura, e lo strumento di lavoro nella grande industria. La forza lavoro sono gli operai che anche nella manifattura impugnano utensili, ed hanno quindi strumenti di lavoro. Seguiamo il testo con una certa pazienza, nell' «analisi» dei caratteri del nuovo strumento di lavoro che chiamiamo macchina. Arriveremo a capire che le rivoluzioni sociali e politiche capitalistiche avvenute prima del secolo decimottavo, ossia quando lo strumento di lavoro era prevalentemente utensile manuale, e non macchina, hanno determinato rapporti sociali della forza lavoro (dei lavoratori) e rapporti politici, necessariamente e prevedibilmente diversi da quelli di rivoluzioni industriali capitaliste (Russia, Cina) del secolo XX in cui lo strumento del lavoro è meccanico a vastissima scala. Restano tuttavia rivoluzioni storiche capitaliste, e borghesi. Una cosa è l'orgia di macchinismo, un'altra è la «costruzione del socialismo». Anche in esse - anticipiamo un poco - inevitabilmente l'ingresso della divinità-macchina porta con sé il sistema borghese della «autocrazia di fabbrica» e della esaltazione della produzione di merci. Marcia storica in controsenso di quella che mostrerà la rivoluzione socialista, e che per questo attendiamo nelle stesse forme in cui Marx l'attese, e che troviamo descritta leggendo la nostra Bibbia: Il Capitale. A marcia rabbia di ogni borghese «spirito libero»!
 
Che i progressi dello strumento del lavoro siano a disposizione di tutti al di là di confini, e di serie di generazioni, non è nostra peregrina trovata. La scienza è di tutti. Solo che oggi è di tutti i poteri capitalistici; solo domani sarà di tutto il genere umano, tipo anti-Mill.
 
Una noterellina: «Generalmente la scienza non costa nulla al capitalista; però questo non gli impedisce di avvalersene. La scienza degli altri è incorporata al capitale precisamente come vi è incorporato il lavoro degli altri. Ma appropriazione “capitalistica” [virgolato nel testo] e appropriazione personale sia della scienza che della ricchezza, sono cose affatto diverse l’una dall’altra». Ometti, riflettete quaranta minuti. Marx comprova la tesi col fatto che il capitalista singolo, appropriatore e sfruttatore, in molti casi è un grasso asino in materia tecnica. Noi vi invitiamo a non più stupirvi del fatto che, se anche in Russia non vi è più in nulla (?) appropriazione personale di lavoro altrui (ricchezza) ciò non toglie che vi sia in pieno appropriazione capitalistica di esso, avendo lo Stato capitalista russo potuto, ovviamente, appropriarsi senza spendere niente della scienza occidentale. Ha avuto dunque a disposizione tutte le invenzioni meccaniche e tecniche, e ha potuto saltare il lungo sviluppo che parte dalla bottega artigiana e passa per l'industriucola autonoma; ma non ha con ciò compiuto il chimerico salto della forma storica e sociale capitalista di produzione. Ma Marx aveva immaginato questo possibile? Sì, limitatamente ad una condizione data da forze rivoluzionarle unitarie «anazionali» che avessero a disposizione territori comparabili di industrialismo completamente sviluppato (esempio: Germania) e di industrialismo da sviluppare (esempio: Russia). Mancando tale peculiare rapporto deve interporsi la fase di crescita del capitalismo, che si presenterà come un'avanzata più nello spazio geografico, che nella successione del tempo, come una conquista più in quantità, che in qualità o per stadi evolutivi concatenati.
 
Lavoro ed energia
 
Torniamo alla dottrinetta. In un organismo che ha raggiunto duemila anni (ormai non speriamo più farlo fuori prima) come la chiesa romana, l'infallibile papa non insegna nulla, ogni parroco insegna tutto. Se ridete, riderete fesso. Marx per definire la macchina parte dai concetti della fisica, e passa poi a quelli storici, che interessano per sciogliere l'immenso enigma del rapporto macchina-uomo. La teoria meccanica della macchina semplice si occupa di quegli strumenti o dispositivi che modificano in forma più conveniente l’energia loro applicata da un agente, che sia anche la mano dell'uomo: non producono nuova energia, restituiscono solo quella ricevuta. Sono la leva, il cuneo, la carrucola, e così via. L'uomo non può spostare dal suo luogo un sasso di dieci quintali con i suoi arti, ma se impugna appropriatamente una lunga leva riesce a farlo. Non saprebbe dividerlo in parti minori che possa poi sollevare, ma se conosce l'uso del cuneo infisso a colpi di mazza, vi perviene.
 
Socialmente si può dire: macchina semplice è quella con cui non si fanno affari. L'economia classica sa che lavoro è valore. Lavoro (quantità di lavoro) è la stessa cosa che energia meccanica. Il fisico dice: forza moltiplicato spazio (spostamento del sasso) ci dà energia. L'economista dice: numero di operai moltiplicato tempo di impiego ci dà valore. Ora, fino a che noi nella produzione non usiamo che la forza muscolare del lavoratori, le macchine semplici, alle quali è giusto sia meccanicamente che socialmente assimilare gli utensili che l'artigiano isolato maneggia, non cambierebbero nulla. Colla leva quell'uomo sposta il sasso di dieci metri in otto ore: otto operai senza leva lo avrebbero rotolato dello stesso spazio in un'ora.
 
Meccanicamente si potrebbe dire che la macchina composta, intesa come un più o meno complesso di macchine semplici (ruote, leve, ingranaggi, ecc.) non apporti nuova energia, mentre lo fanno le macchine motrici, che trasformano in energia meccanica il calore dei combustibili ed altre forme di energia. Allora sarebbe del valore regalato, che permetterebbe di eliminare tanto lavoro dafarsi fare fisicamente dagli uomini. Ma sarebbe così solo in un macchinismo comunista. In un macchinismo capitalista la relazione energetica, fisicamente vera, socialmente è falsa. Finché vedremo che l'energia meccanica è introdotta per produrre più merci, e non per adoperare minor tempo umano di lavoro, dovremo dire che il trapasso, quali che siano le presentazioni ideologiche e giuridiche, è processo capitalistico.
 
Quindi Marx definisce il divario tra l'utensile del periodo sociale artigiano e la macchina del tempo capitalista non in base all'uso di forza muscolare sostituito da altre energie, ma chiamando macchina nel senso sociale non solo le macchine motrici delle diverse industrie e fabbriche attuali, ma anche le trasmissioni di energia (serie di macchine semplici che nulla aggiungono di energia) e le macchine operatrici che si applicano alla materia da lavorare, che la tecnologia volgare chiama macchine utensili (tornio, stampatrice, foratrice, e così via). Di più: siamo già nella fase del macchinismo anche quando la nuova macchina operatrice nonè ancora mossa da energia meccanica ma dalla energia muscolare umana: macchine a manovella, a pedale, ecc.
 
Se così non fosse, Marx dice, dovremmo dire che la macchina, come fonte di energia non umana, esiste da molto prima della fabbrica capitalista. L'uomo infatti ha molto presto appreso ad adoperare altre energie naturali. Un semplice aratro tirato da due buoi sarebbe già, non un utensile, ma una macchina vera e propria, che del resto fa sì che un uomo ari superficie maggiore di quella che nello stesso tempo può dissodare colla zappa.
 
Ma allora, dice Marx, il telaio circolare di Claussen con cui un solo operaio fa 96 mila maglie al minuto, sebbene usato non da un primitivo ma da un moderno, sarebbe utensile, in quanto era mosso a mano, così come la macchina di Wyatt per filare. Diverrebbero macchine solo dal momento che il primo sia mosso da un motore, la seconda, come fin dal 1735, da... un asino. L'animale fu una delle prime energie naturali usate dall'uomo in sussidio della produzione fin dai tempi antichissimi. Ma ve ne furono altre: il vento, i corsi d'acqua.
 
Non dunque questi casi sporadici e diffusi di impiego di energia meccanica che non sia quella muscolare umana, possono definire il macchinismo capitalistico, ma l'introduzione della macchina utensile che precede di molto quella del motore meccanico (macchina a vapore). «È la macchina utensile che inaugura nel secolo decimottavo la rivoluzione industriale: essa serve inoltre da punto di partenza ogniqualvolta si tratta di trasformare il mestiere o la manifattura in una operazione meccanica».
 
Facciamo un passo indietro: col mestiere, ossia col lavoratore artigiano autonomo, isolato, siamo nel precapitalismo, nel regime corporativo-feudale. Con la manifattura siamogià entrati in pieno capitalismo. Si sono realizzate infatti le condizioni note: riunione dei lavoratori in massa, capitale nelle mani di un padrone che è in grado di procurarsi locali, di acquistare le materie prime, di anticipare salari. Prima ancora del macchinismo, la manifattura semplice è già passata a manifattura organica con la divisione tecnica del lavoro tra diverse operazioni che, sia pure col semplice utensilaggio a mano, sono compiute da artefici diversi, sull'ordine insindacabile del «padrone». È rinato questo termine del tempo schiavista, sostituendo ignobilmente quello meno odioso di «signore». Il signore era un vivente e combattente cavaliere, un essere umano, il padrone diverrà alla fine un mostruoso automa.
 
L'autocrate di fabbrica
 
Leggiamo in Marx, non l'apologia, ma la implacabile requisitoria contro il sistema capitalista di fabbrica. Lo strumento di lavoro, finche era tale da essere adoperato dalla sola mano dell'artefice, lo era anche, o signori idealisti moderni, dalla sua mente, e un poco dal suo cuore.
 
Oggi all'utensile artigiano è sostituita la macchina utensile. Marx dice: «Lo strumento, come si è visto, non viene affatto soppresso dalla macchina; strumento nano nelle mani dell’uomo, esso cresce e si moltiplica diventando lo strumento di un meccanismo creato dall’uomo. Da quel momento il capitale fa lavorare l’operaio non più con un proprio utensile, ma come una macchina che maneggia i propri utensili».
 
L'immensa crescita della potenza dell'umano lavoro si accompagno alla degradazione, non all'elevamento, dell'uomo lavoratore. La mule Jenny era il nome dato ad una macchina per filare, con innumerevoli fusi. Col progresso tecnologico del 1863, grazie ad un motore di appena un cavallo, bastavano due operai e mezzo per 450 fusi rotanti, e in una settimana producevano 366 libbre di cotone filato. Col filatoio a mano la stessa quantità di cotone avrebbe richiesto ben 27 mila ore invece di 150: la produttività è divenuta 180 volte più grande! Non è qui possibile seguire e sviluppare questi confronti di Marx, applicarli ad esempio a calcolare quanti paleggiatori sostituisce una delle macchine escavatrici e profilatrici di terra per opere stradali portate dagli americani qui dopo la guerra.
 
Della fabbrica il dott. Ure dà due definizioni. Da una parte la dipinge come «cooperazione di diverse classi di lavoratori, adulti e non adulti, che sorvegliano con abilità e assiduità un sistema di meccanismi operatori, posti continuamente in azione da un motore centrale», dall'altra come «ungrande automacomposto di numerosi organi meccanici ed intellettuali che operano d'accordo e senza interruzione per produrre lo stesso oggetto, essendo tutti questi organi subordinati ad una potenza motrice che si muove di per sé».
 
Marx mostra che «la seconda definizione caratterizza l’impiego che dei lavoratori fa il capitale nella fabbrica moderna». La prima invece può corrispondere al nostro programma: «il lavoratore collettivo, o il corpo del lavoro sociale, appare come il soggetto dominante, e l'automa meccanico come l’oggetto». Ma oggi invece «l’automa stesso è il soggetto, e i lavoratori sono unicamente aggiunticome organi coscienti ai suoi organi incoscienti». Avete udito, o liberali liberatori di corpi e di spiriti e di coscienze, che ci incolpate di automatizzare la vita!? «Ure si compiace a rappresentare il motore centrale della fabbrica non solo come automa, ma anche come autocrate: in quei grandi collaboratori, egli dice, il benefico potere del vapore chiama intorno a sé miriadi di soggetti ed assegna a ciascuno di essi il suo determinato compito».
 
La centralità del concetto mostra che non si tratta, per la centesima volta, di descrivere il capitalismo, come perfino Stalin pretende, ma di scoprire i tratti sociali che la rivoluzione deve disperdere! Ecco altri passi.  «Nella manifattura e nel mestiere artigianesco, l'operaio si avvale del suo strumento; nella fabbrica esso serve la macchina... Nella manifattura, gli operai sono strettamente membra di un meccanismo vivente. Nella fabbricarono incorporati ad un meccanismo morto che esiste indipendentemente da essi».
 
L'ulteriore comparazione di Fourier della fabbrica all'ergastolo, con cui il capitolo finisce, ricorda che nella galera i rematori erano incorporati alla nave, incatenati a vita ai suoi banchi, dovevano sospingerla, o con essa affondare.  «In ogni produzione capitalistica, [ossia anche nella manifattura] in quanto essa non è solo processo di lavoro, ma accrescimento di capitale, è sottinteso che le condizioni di lavoro dominano l’operaio invece di essere da lui dominate [programma: il lavoratore collettivo socialista dominerà eglile condizioni del suo lavoro!]; però è il macchinismo che da a questo capovolgimento una realtà tecnica. Il mezzo di lavoro trasformato in automa, si presenta davanti allo stesso operaio durante il processo dello stesso lavoro, in forma di capitale, di lavoro morto, che domina e succhia la sua forza vivente». Fredda descrizione, non è vero, massa di volgari falsari?
 
Dunque non occorre la persona fisica del padrone individuale, che mano mano è sparita nelle pieghe del capitale azionario, dei collegi amministrativi, degli Enti parastatali, dello Stato politico divenuto (cosa vecchia) imprenditore e fabbricante, e nella ultimissima turpe forma dello Stato che pretende di essere «gli operai stessi» e poterli per questo legare ai piedi dei sinistri automi di acciaio.
 
Il dispotismo aziendale, che solo la rivoluzione comunista raderà dalle fondamenta, quando non avrà più inframettenze intossicanti colle «lotte per la libertà politica» e simili miraggi popolari, edenunziato nell'industrialismo borghese fin dal suo sorgere, accompagnato da vere rivoluzioni di classe, ma truccato dal puzzolente belletto democratico. Non una sillaba è da togliere alla sentenza che da 90 anni possediamo già formulata, e che purtroppo non si è ancora preso ad eseguire. «Gettando alle ortiche la divisione dei poteri, tanto vantata dalla borghesia, ed il sistema rappresentativo, di cui essa si mostra ancora più tenera, il capitale, come privato legislatore e secondo il suo talento, foggia nel suo codice di fabbrica il suo potere autocratico sui dipendenti. Questo codice non è che una parodia della regolamentazione sociale del lavoro, quale la esigono la cooperazione in grandi proporzioni e l’uso dei mezzi di lavoro comuni, specialmente delle macchine. Qui la fruste del conduttore di schiavi viene sostituita dal libro di punizioni dell’ispettore».
 
Ultimi fantasmi dei liberali: l’autocrazia e la dittatura «nella vita», e non nella pallida menzogna legale, non sono ricominciate con Mussolini, Hitler, Franco... neppure con Stalin e proconsoli... neppure con Truman, Eisenhower e servi sciocchi dell'Europa unita: sono un fatto tecnico legato al fragore dei grandi motori centrali, girino essi sulle sponde dell'Hudson, del Tamigi, della Moscova o del fiume delle Perle.
 
Macchina e rivoluzione
 
Ma «la macchina è innocente delle miserie che porta seco». Qui una pagina formidabile mostra la stoltezza degli economisti ufficiali, che non potendo spiegare i tremendi antagonismi uscenti dall'uso delle macchine, fingono di ignorarli e chiudono gli occhi davanti al fatto che «la macchina, trionfo dell’uomo sulle forze naturali, diventa tra le mani dei capitalisti lo strumento per assoggettare l’uomo a quelle forze – che essa, mezzo infallibile per alleviare il lavoro quotidiano, fra le loro mani lo prolunga – che essa, mentre è la bacchetta magica per accrescere il benessere del produttore, fra le loro mani lo immiserisce».
 
La macchina, che nelle mani della collettività lavoratrice sarà fonte di benessere e riposo, diviene assassina nelle mani del capitale. Non perciò condanneremo la macchina. Qui Marx cita un personaggio di Charles Dickens, nel suo famoso romanzo «Oliver Twist». È la difesa del gran malandrino Bill Sykes: «Signori giurati, senza dubbio la gola di un commesso viaggiatore è stata tagliata, il fatto esiste, ma la colpa non è mia, è del coltello. E volete voi sopprimere il coltello a causa di tali temporanei inconvenienti? Rifletteteci. Il coltello è uno degli strumenti più utili nei mestieri e nell’agricoltura, salutare in chirurgia, sapiente nell’anatomia, e allegro compagno nei banchetti. Condannando il coltello, voi ci ricaccereste in piena barbarie!».
 
No. Non vi ricacceremo in piena barbarie e tale rischio non ci spaventa. Vi toglieremo solo dalle mani il manico del coltello-macchina. La macchina sarà domani preziosa in un modo di produzione non mercantile, e la sua apparizione è stata altresì preziosa appunto per i rivoluzionari antagonismi che ha sollevato tra capitale e proletariato. «È fuori dubbio che tali fermenti di trasformazione, il termine finale dei quali [il programma! o sordi] è la soppressione dell’antica divisione del lavoro, si trovano inaperta contraddizione colla forma capitalistica di produzione e con l’ambiente economico in cui essa pone l’operaio. Ma la sola strada regia per cui un modo di produzione e l’organizzazione sociale che gli corrisponde procedono verso la loro dissoluzione e la loro metamorfosi, è lo sviluppo storico dei loro immanenti antagonismi». 
 
Ancora una invettiva alla «divisione del lavoro», che il comunismo seppellirà. Dialetticamente era saggia nel tempo corporativo: ne sutor ultra crepidam: ciabattino, tieniti alla suola! Ma da quando «l’orologiaio Watt inventa la macchina a vapore, e il barbiere Arkwright il telaio continuo una tale saggezza diventa demenza e maledizione».  Ed è anche con un grido di battaglia che si chiude questa parte dell'opera di Marx, dopo la dettagliata disamina della legislazione sociale sul lavoro e la limitazione della giornata di lavoro: «Essa aggrava l'anarchia e la crisi della produzione sociale, aumenta l’intensità del lavoro ( le catastrofi dell'intera produzione capitalistica, l'intensità del lavoro [Stakhanov! Stakhanov!] ed inasprisce la concorrenza fra l’uomo e la macchina. Distruggendo la piccola industria ed il lavoro a domicilio, essa sopprime l’ultimo rifugio di una massa di lavoratori, ogni giorno resi soprannumerari, e con ciò distrugge la valvola di sicurezza di tutta la caldaia sociale». «Colle condizioni materiali e colle combinazioni sociali della produzione, essa porta a maturazione le condizioni e gli antagonismi della sua forma capitalistica, gli elementi di formazione di una nuova società, e le forze disgregatrici dell’antica».
 
OGGI
Dal cavallo al kilowatt
 
Già sulla base degli elementi tecnologici del suo tempo, Marx stabilisce appieno che l'introduzione della forza motrice meccanica (meglio, energia) accelera la concentrazione delle attività produttive in grandissime aziende, e la stessa legislazione sul lavoro nelle fabbriche agisce in tal senso: «eccitando così lo sviluppo degli elementi materiali necessari alla trasformazione del sistema manifatturiero in sistema di fabbrica, le leggi, la cui applicazione comporta notevoli maggiori investimenti, accelera simultaneamente la rovina delle piccole aziende industriali e la concentrazione dei capitali».
 
Più volte del resto abbiamo citato dai capitoli sull'accumulazione il passaggio famoso, illustrato colle modificazioni tecniche intervenute ad esempio nella siderurgia: «In un speciale ramo della produzione la centralizzazione raggiungerà il suo limite quando tutti i capitali che si troveranno impiegati si fonderanno in un unico capitale individuale. In una data forma sociale tali limiti saranno raggiunti soltanto nel momento in cui l’intero capitale sociale si ritroverà riunito in una sola mano, sia di un unico capitalista, che di una società di capitalisti». Non meno notoriamente Engels traspose tale prospettiva ai trusts, ai monopoli, e alle gestioni statali.
 
Se le stesse leggi mercantili che confluiscono nella produzione del plusvalore fornirono a Marx la base della dimostrazione immensamente confermata dalla storia, sulla gigantesca accumulazione capitalista in masse colossali, non meno vi influirono le nuove forme tecniche di produrre energia motrice. Fino a che noi ci riferiamo alla macchina a vapore, prima attuazione in grande dell'impiego di forza meccanica nella produzione, noi vediamo che la soluzione più appropriata è l'autonomia, in ciascuna fabbrica, della produzione del quanto di energia che le occorre. La centrale termica risolve tutto: specie dopo l'estrazione in grande del combustibile fossile, resa a sua volta grandiosa e dalle macchine e dalla forma capitalista della gestione mineraria (una volta largamente statale). Fino da allora è chiaro che il costo del cavallo-vapore diventa tanto minore, quanto più grande è la caldaia, e quindi vi è altro motivo del soggiacere della piccola azienda alla grande: non si impone tuttavia un legame organizzativo tra fabbrica e fabbrica, potendo tutte trovare carbone sul «libero mercato».
 
Tutto ciò è mutato enormemente coi progressi della elettromeccanica. La convenienza di fare dell'energia una merce èdivenuta decisiva con la creazione delle distribuzioni elettriche a mezzo di conduttori. Ogni fabbrica oggi tende non a produrre, ma a comprare la sua energia. Il motore centrale di Ure poteva comandare le macchine operatrici, e gli uomini ad esse resi servi, in piccolo raggio: quello consentito dalle trasmissione a mezzo di «meccanismi semplici»: alberi a puleggia, cingoli, ingranaggi conici... Nessuno aveva nemmeno trovato utile distribuire vapore sotto pressione ad altri con lunghe tubazioni: le enormi dispersioni di calore rendevano il sistema antieconomico.
 
Facciamo un'ipotesi gratuita: che prima di scoprire l'elettricità dinamica e la corrente elettrica si fosse scoperto il gas metano naturale. Anche questo è un combustibile fossile, di origine organica come quello solido e liquido. Ma a differenza di quelli (quello liquido e incanalabile come merce, non come combustibile, per motivi tecnici ed economici) si può distribuire con reti. Lo stesso sarebbe sorta la necessità di uno stretto legame di organizzazione tra tutte le fabbriche, alimentate da una stessa distribuzione.
 
Infatti il consumo di energia di ognuna non può più variare ad arbitrio della locale direzione, poiché potrebbe accadere alla centrale unica di restare a corto di energia, o di doverla «buttar via». Invece il capitalista dell'azienda a motrice autonoma poteva a suo piacere escludere forni e caldaie, ovvero impiantarne altre per aumenti di produzione. Dipendendo tutto il piano di impiego degli operai, servi delle macchine utensili, da quello dell'energia assegnata, tutto il meccanismo industriale sociale si adegua a queste nuove norme, si collega, si centralizza, si subordina ad una infinità di discipline.
 
Pianificazione non è socialismo!
 
Un tale adeguamento e disciplina di reti generali non è mutamento di tipo storico di produzione; l'azienda resta azienda, il lavoratore resta un salariato, più e non meno astretto nella autocrazia degli automi di fabbrica. La normativa generale da cui sono uscite le mille e mille odierne leggi speciali, non è una rivoluzione sociale: inutile per il lettore immerso nella vita moderna estendere il confronto dall'energia motrice per le officine e stabilimenti che fabbricano manufatti, alle mille altre reti di comunicazioni, trasporti, servizi di ogni specie.
 
Anche l'antichità amministrava motori non autonomi. Autonomo era indubbiamente l'animale domestico, e tanto più potente l'azienda o il podere quanti più cavalli o buoi possedeva. Autonomo era il motore a vento, ma invece dipendente dal capriccio della natura. Non autonomo, almeno sul lungo percorso di uno stesso corso d'acqua - fiume o «canale industriale» - era il motore ad acqua. Ed ecco leggi di antichissimi Stati dare una precisa disciplina affinché nessuno modificasse il dispositivo dei «salti» per consumare più energia idraulica della macina, poniamo, sita a monte o a valle. Una sentenza 1810 di una commissione liquidatrice dei privilegi sociali in Calabria dice tra l'altro: «Sia libero ad ognuno il costruir delle macchine idrauliche, pur che non si rechi con ciò danno alcuno alle macchine idrauliche già esistenti».
 
Regime liberalissimo: quello di Gioacchino Murat. Immaginate un moderno regime che sia tanto liberale da dire: sia libero ad ognuno il costruir delle macchine elettriche, e attaccarle al primo filo che trova! In tutti i tempi dunque il pubblico potere ha dovuto regolare e coordinare le attività produttive e le energie, tanto più in quanto era tecnicamente inevitabile la loro dipendenza da una stessa rete, da uno stesso flusso materiale di fonti di energia: e vi è parallelo completo tra il flusso di acqua in carica e quello degli elettroni dal conduttore a dato potenziale.
 
Ed allora, dimenticando per un momento lo svolgimento degli episodi storici peculiari e i nomi dei condottieri, domandiamoci come farebbe un organismo sociale e di potere che dovesse industrializzare un paese finora arretrato. Naturalmente esso non si aspetterebbe di ripercorrere una lenta via dalla corporazione senza lavoro in comune, alla manifattura senza macchine utensili, alla fabbrica con macchine utensili ma senza motori a vapore, alla grande industria colla sua centrale termica, ma passerebbe in modo immediato all'impianto di centrali elettriche, e fin che possibile idroelettriche, usando quei mezzi moderni della scienza applicata per captare acque e creare salti, per distribuire poi date quote, stabilmente fissate in un piano di progetto, alle singole officine che dovrebbero produrre manufatti per il consumo.
 
La stessa ragione mercantile della concorrenza sul mercato mondiale nell'acquisto di quanto è indispensabile a simili impianti, istraderebbe in quel modo i supposti poteri, da poi che ogni altra via sarebbe più costosa e implicherebbe maggiori erogazioni ed economie «estere». Le pretese differenze tra il capitalismo russo e quello che si sviluppò, poniamo in Inghilterra, Francia, Germania, America, non consistono dunque e non significano un passo verso una diversa forma sociale che sfugga al sistema dispotico di fabbrica e alla divisione sociale del lavoro ed alla frenetica intensità del lavoro, ma nel più rapido e diretto arrivare a questo stesso sistema.
 
La storia sta a ricordarci che il 22-29 dicembre del 1921 all'ottavo congresso dei Soviet si pongono le basi alla industrializzazione pianificata, adottando il programma della elettrificazione, di cui è noto come Lenin fosse un formidabile propugnatore.
 
Pensiero e storia
 
Nonostante la disposizione da parte dell'uomo dei nuovi possenti mezzi forniti dal dominio della energia elettrica, la legge sociale del trapasso da uno all'altro dei tipi di produzione non è stata spezzata. Autonomo o pianificato dal centro, a vapore o elettrificato, l'ingranaggio produttivo in costruzione in URSS è capitalistico.
 
Possono i trovati di scienza pura ed applicata usciti dalla mente umana cambiare e formare il corso storico? Ci potremmo chiedere se la forma interatomica dell'energia, dato che in un pugno di materia oggi inerte è racchiusa più energia a milioni di cavalli e di kilowatt che nel corso di un fiume solenne, consenta di tornare alle aziende locali autonome, ad un'economia «liberale», ad un'analoga ideologia umana. Ciò non può essere, e del resto i mezzi per scatenare una simile eruzione di energia, spezzando i primi nuclei, consistono in energia di fonte meccanico-elettrica a tali potenziali, mille volte superiori a quelli del motore industriale che schiavizza braccia ed anime umane, che nessuna società di capitalisti, ma solo lo Stato politico, si è posto al controllo della impresa.
 
Dal modesto cavallo, prima bestia e poi HP, che azionava la filatrice rotante, ai milioni di volts del «ciclotrone», enorme è il cammino. Ma già Marx, nella trattazione che abbiamo studiata, ricorda che Cartesio e Bacone, per i quali gli animali da lavoro erano «macchine», e che erano ideologici precursori del capitalismo, ritenevano che «un cambiamento nel modo di pensare porterebbe ad un cambiamento nel modo di produrre e alla dominazione pratica dell'uomo sulla natura». Cartesio, nei Discours sur la méthode, fa il vaticinio che «invece di una filosofia speculativa quale s'insegna nelle scuole se ne possa trovare una pratica, colla quale conoscendo la forza e le azioni del fuoco, dell'aria, dell'acqua, degli astri... sia dato valersene chiaramente quanto negli attuali mestieri, contribuendo al perfezionamento della vita umana».
 
Da Marx, noi poniamo una simile realizzazione al termine della difficile corsa storica, ma non riteniamo che la forza creatrice del pensiero generi forze di produzione nuove, bensì che lo svolgimento e il contrasto dei processi sociali si rifletta nelle conquiste del pensiero.
 
Inutile dunque, con la volontà il sogno o l'illusione, o le cento risorse di deformazione del pensiero e dell'opinione, cambiare nome al fatto ed al processo inesorabile, e pretendere che sfruttando la sola «intelligenza meccanica» del moderno capitalismo, allievo cartesiano obbediente e superante il maestro, si riesca a identificare un sistema di compressione capitalista del lavoro e dell'uomo, con il perfezionamento della vita; al quale - nell'attuale svolto storico - non basta il lavoro dello spirito, ma occorre un'altra guerra sociale, condotta dalla forza materiale di uomini contro uomini, classi contro classi.
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